Ritratto #6 Stephan / La migliore delle vite possibili

Quando ci siamo incontrati per la prima volta a un caffé vicino a République, avevamo questa strana impressione d’esserci già conosciuti. Stephan mi era familiare, davvero familiare. Sarà per il suo modo di fare molto alla mano, oppure perché ha vissuto a Menton che è praticamente in Italia, sarà perché parla italiano ed è stato sposato con un’italiana. Sarà che scrive molte lettere e che ha letto molto, e tra i lettori può succedere che si crei un terreno comune di suggestioni ed esperienze, che è come pensare le stesse cose. Un po’ come conoscersi.

Stephan non pubblica spesso ciò che scrive, quindi gli sono particolarmente grata che abbia voluto condividere questi splendidi pensieri sulla sua vita a Parigi, e da lì verso altre terre, su questo blog.

 

Stephan C. : Cara Claudia,

Caso o coincidenza, quest’anno saranno esattamente 30 anni che sono venuto a vivere a Parigi !

Avevo 26 anni al tempo e venivo dalla “provincia”, come si suol dire, perdendo così in un sol colpo il mare e il sole e le montagne dell’entroterra di Mentone. Ma non importa, era probabilmente necessario allontanarsi dalla bellezza e dalla natura per poterle ritrovare più tardi invariate e rinnovate… Le tue domande giungono quindi al momento opportuno e mi permettono di dare uno sguardo al passato come dal finestrino di un treno.

Una delle mie prime impressioni dell’epoca, è stato al mio arrivo a Orly, gettato in un autobus che trasportava una folla di gente appena sbarcata in città. Ero letteralmente scioccato di trovarmi lì, in mezzo a tutte quelle persone che venivano da ogni parte del mondo, anonimo tra anonimi, sconosciuto tra sconosciuti, al riparo da tutti, in mezzo a tutti. Era una specie di euforia interiore che ogni tanto mi faceva sorridere stupidamente ai miei vicini di posto sballottati di qua e di là come me, e ammirare il paesaggio urbano che sfilava attraverso i vetri appannati da tutti questi respiri estranei gli uni agli altri.

Finalmente solo, finalmente lontano, finalmente di fronte a sé e agli altri, senza il filtro di una storia o di una continuità. Il che è certamente una bella illusione, ma io l’ho vissuta così, come un inizio, una scoperta, un ritorno anche, paradossalmente. Come se ritrovassi una vita tutta mia, che era stata interrotta dall’infanzia, una nuova esistenza che aveva le sue radici non nella “semplice” (ehm) filiazione, ma in un tempo quasi mitico che si situava prima della nascita e della famiglia. In realtà si trattava di una trama umana più ampia, se si vuole, e la possibilità di vivere per lo scopo di diventare una persona diversa da sé.

Naturalmente è inutile fuggire o rinunciare al proprio patrimonio, ma all’epoca la mia storia pesava un po’ troppo sulle spalle e questa distanza appena acquisita, mi ha dato un po’ di quell’aria di cui avevo bisogno. Posso quindi dire che l’aria di Parigi e della sua periferia, inquinata o no, me la sono goduta a pieni polmoni e che questa città, l’ho trovata bella. Solo più tardi ho pensato alla continuità nascosta dietro la rottura, questo esilio volontario.

C’è la forza del destino e poi vi è “forzare” il proprio destino, ma alla fine entrambi finiscono per incontrarsi da qualche parte in un luogo astratto, in una dimensione un po’ fantastica, in cui le due forze sovrapposte disegnano un profilo comune, fatto di abitudini e di incontri sorprendenti, di ricordi reinventati, di amicizie stellari, di risvegli dolorosi e sogni fuggiti. Una vita quotidiana che può divenire banale con il tempo, ma con una carica magnetica che mostra invariabilmente la direzione di queste vecchie strade sporche e sovraffollate, che disegnano in negativo, col passare del tempo, qualcosa come “la migliore delle vite possibili”.

Eppure, curiosamente, questa nuova esperienza per me era controbilanciata da questo fatto semplice e innegabile : conoscevo Parigi ben prima di calpestare le sue strade e i suoi pavés irregolari. Prima di conoscere Parigi, avevo letto dei libri che parlavano di Parigi senza rendermene conto davvero e, per impregnazione, identificazione, o assimilazione, i nomi delle vie, delle piazze, dei monumenti, gli appellativi misteriosi delle stazioni della metropolitana, tutto questo e altro ancora, tornava a me tutt’a un tratto, presente e insospettabile. I libri di Simenon e gli episodi di Maigret alla televisione negli anni ’70, la favolosa e poetica serie degli anni ’60, Belphégor il fantasma del Louvre, les Compagnons de Baal, le poesie di Verlaine, la Comune di Rimbaud.

Dall’Aurelia di Nerval a Nadja di André Breton, Parigi era la scenografia e il soggetto di opere indimenticabili della mia infanzia e soprattutto della mia adolescenza. E’ per questo motivo che ho cominciato a percorrere questa città detta “Ville Lumière”, prima in autobus, all’azzardo delle linee e dei capolinea, Pollicino sul suo calesse, alla ricerca di un sentiero perduto e costantemente ritrovato, posando il mio sguardo in quello degli altri, reinventando a mio volere le immagini del passato, alla guida del mio film o, meglio, trasportato da questo mezzo, che era comune anche a tutti gli altri nuovi arrivati.

Altri personaggi reali o immaginari avevano vissuto qui, e io ingenuamente andavo loro incontro, entravo a mia volta nella città scritta o filmata. Non so se i miei tragitti, messi uno dietro l’altro, avessero la forma di un libro, un’incisione antica, o di una scena di cinema, ma le sequenze che emergevano ai miei occhi in quel momento erano tanto quelle della mia storia, quanto quelle, fantasticate, degli scrittori, dei poeti, dei registi e della loro immaginazione. Parigi, città sognata tanto quanto vissuta, da tante generazioni, dall’accademico François Villon all’aristocratico Marcel Proust, tutti impegnati a scrivere, a tal punto da rendere indistinguibile la storia dal pensiero, tutti impegnati nel corpo del testo della città, parola per parola, di strada in strada, per arrivare alla linea del paragrafo o della metropolitana. Naturalmente altri libri sono venuti in seguito ad arricchire e intensificare questa rete immaginaria di letture e di incontri e d’amicizia.

Credo che si possa dire che si entra in amicizia con le città e i loro abitanti, sconosciuti di un giorno, o fratelli per lungo tempo, “passanti svanite” come cantava Brassens, o belle di una sera intraviste tra luci e ombre di un convoglio aereo nel cielo notturno. Ho avuto spesso l’impressione che qui la mia vita diventasse, se non più grande, in ogni caso più aperta, di partecipare a uno spazio e a un tempo che erano oltre la mia semplice esistenza, rivelando così un’altra genealogia, un’altra storia, quella della cultura e dell’amicizia.

Tra i libri più recenti che hanno creato e confermato questo affetto per Parigi, ci sono stati “Enchantements sur Paris” di Jacques Yonnet, ripubblicato con il titolo “Rue des Maléfices” purtroppo senza le meravigliose foto d’epoca della prima edizione, “Le Livre des Passages, Paris capitale du 19ème siècle”, il grande libro incompiuto di Walter Benjamin e “Le Paysan de Paris” di un giovane Louis Aragon, agli albori della rivoluzione surrealista tanto legata alla leggenda della città. Un posto a sé lo dedico a “Les Naufragés” del compianto Patrick Declerck, che rinnovò la stessa oscurità e la grandezza di Villon descrivendo dall’interno la miseria e l’abbandono della gente di strada nel nostro tempo.

“Non mi ero reso conto che il mito è il cammino della coscienza, il suo tapis roulant.”

“La luce moderna dell’insolito, ecco quello di cui ci ricorderemo.”

Louis Aragon, Le Paysan de Paris, Gallimard, 1926.

Vive la vélorution !

Senza dimenticare, naturalmente, tutte le canzoni popolari, da “Grands Boulevards” di Francis Lemarque (Nathan Korb il suo vero nome), a “Poinçonneur des Lilas” di Gainsbourg (Lucien Ginsburg). E’ strano come le più belle evocazioni di una Parigi amata, sono state scritte da persone provenienti da altre parti, i Grandi Cosmopoliti, gli esuli di tutto il mondo, sempre all’angolo di una strada, di un passage, o di un ritornello sentito di sfuggita, solo casualmente, ma che sono e saranno sempre il sale di questa città.

Tra le canzoni su Parigi, le poesie di Verlaine e Rimbaud musicate da Leo Ferré sono le più suggestive per me. Ascoltate centinaia di volte nella “mia provincia”, le loro melodie rimarranno per sempre impresse nella mia memoria. “On est pas sérieux quand on a 17 ans” di Arthur Rimbaud, per esempio:

Les tilleuls sentent bon dans les bons soirs de juin !

L’air est parfois si doux, qu’on ferme la paupière ;

Le vent chargé de bruits – la ville n’est pas loin –

A des parfums de vigne et des parfums de bière…

(I tigli sanno un buon profumo nelle buone sere di giugno !

L’aria a volte è così mite che si chiudon le palpebre ;

Il vento, carico di suoni – la città non è lontana –

porta profumi di vite e profumi di birra…)

A volte rimpiango un po’ quelle volte in cui, uscendo da una stazione della metropolitana, mi trovavo completamente disorientato, a volte obbligato a chiedere informazioni per raggiungere la Senna o la Bastiglia per cercare di orientarmi. Questa sensazione in fondo piacevole, di non sapere dove si è esattamente, sapendo al contempo che le informazioni sono a portata di mano, di parola, o meglio, di sguardo. Camminare senza meta precisa per imparare a conoscere la distesa di questa città e per collegare i diversi quartieri, tirarsi fuori dall’efficacia degli spostamenti sotterranei, non solo essere spostati, appunto, ma percorrere, camminare, camminare sempre, per incorporare i luoghi, i nomi, la storia, farsi entrare la città sotto pelle come un amore di cui ci si ricorderà a lungo, per infine dimenticarlo, e riscoprirlo anni dopo. La bellezza segreta di una città, la sua magia, è prima di tutto a piedi che la si può conoscere, aleatoria, soggettiva, sovra-determinata e non geo-localizzabile, una città fatta di peripli e di erranze, incontri e situazioni, uno spazio mentale in un tempo immaginato.

Tra le cose che ho fatto, mi ricordo che passavo regolarmente a Gare de Lyon, nella grande sala partenze con il suo lungo affresco dipinto dei paesaggi e delle città da Parigi a Mentone, quando facevo i miei giri delle librerie e delle edicole. Di quell’epoca, mantengo intatta l’abitudine di percorrere le strade, soffermandomi davanti le vetrine di libri antichi e i bouquinistes lungo i quais della Senna. I turisti non mi danno fastidio, al contrario, mi piace molto guardare queste facce venute da tutto il mondo, ascoltare gli accenti lontani riecheggiare sotto i grandi platani dei viali.

A volte ho un trucchetto per aggirare la routine dei tragitti, scendo 2 o 3 stazioni della metro prima di quella in cui devo recarmi e, una volta lì, esploro, passeggio, raggiungo qualcosa che non sapevo di cercare, un’atmosfera, una luce, i tavolini all’aperto dei caffé, l’insegna di un negozio, una prospettiva inedita, uno sguardo rubato, un profumo nuovo, una curiosa miscela di sconosciuto e di reminiscenze.

Ci vuole tempo per costruire il proprio rapporto con la città, per elaborare una storia con le persone e i luoghi, ma i due mezzi più forti che ho conosciuto che mi hanno portato a questo, sono stati il lavoro e l’amicizia. Che si tratti di solitudine, violenza, o della paura che gli inverni non finiscano mai, niente è più importante di questi legami. La sera, dopo il lavoro, cammino ancora un po’ al di là della fatica. Si dice che il cielo di Parigi è uno dei più vari al mondo, il mio osservatorio preferito è il Pont-au-Change à Châtelet. Da lì, appoggio i gomiti e guardo, come da un balcone, il fiume che scorre fino alla sua foce della Senna-Maritime, e sento la brezza che da lontano scaccia le grandi nuvole bianche.

Camminare in una città è anche camminare nella memoria di coloro che l’hanno abitata prima di noi, quelli che hanno percorso le sue strade, i suoi parchi, i suoi viali sommersi di auto o i suoi marciapiedi di pioggia, la memoria di coloro che lì ci hanno lavorato e amato, tra pareti di miseria, ubriachezza o di gioia. Camminare in una città è anche incrociare la strada di una o un estraneo, o di mille. E’ al tempo stesso scoprire e riconoscere che un corpo, un gesto, o un volto ci commuovano oltre misura, e continuare a seguire da lontano quei movimenti fino alla sua scomparsa. Quante volte questa città si rivela uno specchio che svela a noi stessi quello che non sappiamo ancora o di cui abbiamo solo un presentimento confuso, come uno spazio magico fatto di coincidenze, di indifferenze e anche disgusti. Arrivato alla mia età, quello che desidero ancora fare a Parigi si trova nel passato, ma a volte trovo la strada di questo ritorno, e quando ho la possibilità di esservi accompagnato da un amico, tutto ciò mi rende felice e dà un senso nuovo alla mia percezione del tempo. Seduto sulla terrazza di un caffé, fisso i giovani ragazzi d’oggi, immagino i loro percorsi con una certa emozione, mi dico che sono molto seri e molto belli, che la vita continua, e che ormai Parigi appartiene a loro.

La Favorite d’un matin

Alla fine della “Favola di Venezia”, Hugo Pratt chiude il suo racconto allegorico e avventuroso con una delle sue frasi più belle per me :

“CI SONO A VENEZIA TRE LUOGHI MAGICI : UNO IN CALLE DELL’AMOR DEGLI AMICI ; UN SECONDO VICINO AL PONTE DELLE MARAVEGIE ; UN TERZO IN CALLE DEI MARRANI A SAN GEREMIA IN GHETTO. QUANDO I VENEZIANI (QUALCHE VOLTA ANCHE I MALTESI) SONO STANCHI DELLE AUTORITA’ COSTITUITE SI RECANO IN QUESTI TRE LUOGHI SEGRETI E, APRENDO LE PORTE CHE STANNO IN FONDO ALLE CORTI, SE NE VANNO IN POSTI BELLISSIMI E IN ALTRE STORIE.”

Che idea meravigliosa ! Ho pensato spesso a quali sarebbero questi tre luoghi magici in diverse città, e anche a Parigi, naturalmente ! Ho avuto alcune idee nel corso del tempo, ma nulla di definitivo, non sta a una sola persona di decidere qualcosa di così importante. Da qualche parte tra l’Ile de la Cité e il Jardin des Plantes, immagino. Fino alla Place d’Italie, forse, risalendo poi verso la Butte-aux-Cailles e Les Gobelins, dove scorre, segreto, il fiume sotterraneo caro a Yonnet e i suoi malefici…

Dietro le mura di Parigi ci sono dei giardini. Giardini con viali orlati di tigli che fioriscono in giugno per incensare il calore dell’estate. Il profumo dei tigli lo sento ogni anno in giugno, Place des Innocents, presso le Halles, e a volte mi dico, perché un profumo non potrebbe essere anche un luogo per cambiare storia, e sogno ?

Spesso, di mattina, mi è capitato di andare da un medico che aveva il suo ufficio in Rue d’Assas, dietro i Jardins du Luxembourg, nella stessa casa in cui Strindberg, il suo scrittore preferito, aveva vissuto nel secolo scorso. Una tale ammirazione e devozione, mi fa realizzare quanto Parigi possa ispirare quegli abitanti che si prendono la briga di conoscere la sua storia, grande o piccola che sia.

Un altro posto, un altro quartiere, in Rue Saint-Martin, nei pressi di Rue Quincampoix e dell’attuale Beaubourg, la chiesa Saint-Merri ospita sulla sua facciata rinnovata, nel centro stesso del suo timpano, la figura scolpita di una creatura ibrida, ermafrodita, mezzo angelo mezzo demone, che secondo gli storici risale al 1841. Questa stranezza portata all’attenzione del pubblico dalle misteriose “Demeures Philosophales” di Fulcanelli, è una delle piccole “enclavi del sogno” disperse nella capitale, tributo o citazione del movimento occultista così pregnante nel 19° secolo. Un diavolo o un idolo dei Templari nel luogo stesso in cui ci si aspetterebbe di trovare Cristo o un grande santo, ecco un motivo in più per deliziare l’immaginazione e rinnovare il senso della meraviglia del pedone di Parigi.

Ultima scoperta, la mia amica Catherine Pinguet m’ha parlato di un cimitero privato Rue de Picpus ! Anche la geografia di Parigi è una storia a sé. A volte ci sono luoghi strani, nascosti, o mal disposti ; a volte si trovano all’uscita di un luogo che porta un senso diverso, o addirittura divergente, e si può misurare l’impatto della storia ufficiale nella disposizione delle piazze, delle strade, delle corti, il che diventa quasi un significato simbolico che salta agli occhi, come se venisse da lontano : questo passage, questa deviazione sono come la prova dello smarrimento provocato da un altro luogo. In questo caso, parlo del Cimitero dei ghigliottinati des Barrières de la Nation del 1793, un luogo “altro”, il lato oscuro della rivoluzione francese, il terrore… Centinaia di tombe della nobiltà e del clero sono nascoste allo sguardo dei passanti, al limite di una corte poi di un giardino quasi-segreto addossato a un’istituzione religiosa tutt’ora in attività. Nella cappella le mura della navata sono coperte dalla lunga litania dei nomi dei 2000 ghigliottinati stipati nella fossa comune.

Ils avaient un nom

Tornando alla Place de la Nation, un po’ sotto shock, i miei occhi sgranati vedono chiaramente la statua centrale, un simbolo di gloria collettiva, che si slancia verso ovest, alla Place de la République e volta le spalle ai Re della Francia arroccati sulle colonne del Trono, mentre quest’ultimi guardano verso est, cioé al Château de Vincennes, antica dimora e fortezza reale prima che Filippo Augusto non facesse costruire il Palazzo del Louvre… La nazione guarda all’avvenire, e la monarchia al passato. Una disposizione che riflette un senso particolare della storia, cioé che la storia è sempre quella dei vincitori.

Sul fondo di una corte del 12° arrondissement di Parigi, giace, alla rinfusa, tutto un mondo svanito, la storia ha tranciato nel vivo i fili dell’antico ordine. Lo dico senza nostalgia o rimpianto per il vecchio regime e le sue disuguaglianze, le sue crudeltà e i suoi accecamenti colpevoli, ma forse avremmo potuto agire altrimenti, seguire una strada meno radicale, emancipatrice nonostante l’oscurantismo, e che avrebbe potuto risparmiare a questo paese più di un secolo di guerra civile, che non ha mai pronunciato il suo nome.

Uno dei momenti migliori per sperimentare Parigi è il ritorno in città da un viaggio o una vacanza. Ieri sera, o meglio l’altra notte, ho attraversato la periferia nord in un autobus che collega l’aeroporto di Roissy Charles de Gaulle alla Gare de l’Est, quando non c’è più la RER, con la gente che va o torna dal lavoro, africani e maghrebini per lo più (i turisti di ritorno dalle vacanze prendono un taxi al solito). In un’ora abbiamo raggiunto la Gare de l’Est e poi, il Noctilien (sicuramente un veicolo ibrido tra il grande serpente cosmico e la notte eterna !) fino a Châtelet, e, infine, Bagnolet e Montreuil dopo aver passato la Periferica un’ora più tardi. Ma questa seconda parte è stata molto bella, in mezzo a una Parigi deserta, senza auto, turisti e curiosi, alle 2 o 3 del mattino, il Quai Henri IV, Bastille e Rue St Antoine e la Gare de Lyon fino a Gambetta, attraverso i viali e i monumenti illuminati, con tutti questi lavoratori nottambuli di ritorno o in partenza per eseguire oscuri lavori domestici, di sorveglianza, e altri servizi per oliare la grande meccanica urbana…

Mi sono fatto tra me e me la riflessione banale, ma è pazzesco il numero di persone che non dormono di notte in questa città. Alla fermata dell’autobus un giovane marocchino in una giacca leggera nella notte fredda racconta coraggiosamente ad un alto africano imbacuccato che ha vissuto fino all’età di 15 sull’altopiano dell’Alto Atlante, a più di 1800m di altitudine, e che questo freddo qui, quello di Parigi, non lo tocca neanche, non lo sente… Venire da un’isola perduta nel Mediterraneo al largo della Francia e dell’Italia per un’altra isola, chiamata Francia, non ha nessun rapporto con tutto questo, se non una strana sensazione di irrealtà, in un modo o nell’altro. Evocando questa tarda notte in una Parigi deserta o piuttosto piena di tutti coloro che non si vedono durante il giorno, un amico mi ha detto di aver pensato a questo piccolo film di Marguerite Duras, Les Mains Négatives (1978).

Un’altra coincidenza, cara Claudia, dal momento che tra le tue domande, c’era anche “Ami la scrittrice Marguerite Duras ?” Ma questa è un’altra storia…

Per anni, il quartiere dove lavoro è un cantiere e in questo “rumore e furore” una vecchia signora svilita pensa ai giorni del suo glorioso passato guardando scorrere la Senna, ai suoi piedi.

La fermeture de la Samaritaine

Lovely Rita -> Play it again Sam ! -> Amar m’a tué

Ma mantiene sempre il senso dell’umorismo !

 

Stephan / La meilleure des vies possibles

Lorsque nous nous sommes rencontrés pour la première fois dans un café près de République, nous avons ressenti un étrange sentiment de familiarité, comme si on se connaissait déjà, comme si ce n’était pas la première fois qu’on se parlait. La raison était peut-être que Stephan est très jovial, ou peut-être qu’il a vécu à Menton- qui est à peu près en Italie, ou qu’il parle italien et il a été mariée à une fille Italienne. Ou peut-être parce qu’il a écrit beaucoup de lettres et il lit beaucoup, et, entre lecteurs, il se peut créer un terrain commun de souvenirs et d’expériences, qui est un peu comme avoir pensé la même chose. Un peu comme se rencontrer.

Stephan ne publie pas souvent ce qu’il écrit, alors je suis très reconnaissant qu’il a voulu partager ces pensées merveilleux de sa vie à Paris, et de là vers d’autres terres, sur ce blog.

 

Stephan C. : Chère Claudia,

Hasard ou coïncidence, cette année cela fera tout juste 30 ans que je suis venu habiter Paris et sa région!

J’avais donc 26 ans à l’époque et je venais de ma “province” comme on dit, perdant du coup la mer et le soleil et les montagnes de l’arrière-pays Mentonnais. Mais qu’à cela ne tienne, il fallait s’éloigner probablement de la beauté et de la nature pour la retrouver plus tard inchangée et renouvelée.. Tes questions tombent donc à point nommé et me permettent de jeter un regard en arrière comme par la fenêtre d’un train.

Une des premières impressions dont je me souvienne de cette époque, c’est à mon arrivée à Orly, jeté dans le bus qui transportait une foule fraîchement débarquée vers la capitale. J’étais littéralement abasourdi de me retrouver là, au milieu de tout ces gens venus des quatre coins du monde, anonyme parmi les anonymes, inconnu parmi les inconnus, caché bien à l’abri de tous parmi tous. C’était une sorte d’euphorie intérieure qui me faisait parfois sourire bêtement à mes voisins de banquette trimballés comme moi et contempler le paysage urbain en diable défiler par les vitres embuées de tous ces souffles étrangers l’un à l’autre.

Enfin seul, enfin loin, enfin face à soi et aux autres sans le filtre d’une histoire ou d’une continuité, belle illusion bien sûr, mais tellement ressentie comme un commencement, une découverte, un retour aussi, paradoxalement, comme si je retrouvai une vie bien à moi que l’enfance avait interrompue, une nouvelle existence qui puisait ses racines non plus dans la “simple”(hum) filiation mais dans un temps presque mythique d’avant la naissance et la famille. En fait il s’agissait à présent d’ une trame humaine plus élargie, si l’on peut dire, et la possibilité de vivre dans l’unique but de devenir un autre que soi.

Bien sûr il ne sert à rien de fuir ou renoncer à son héritage mais à l’époque cette histoire pesait un peu trop lourdement sur mes épaules et cette distance nouvellement acquise me donnait un peu de l’air dont j’avais besoin, alors je peux dire que l’air de Paris et de sa banlieue, pollué ou pas, je m’en suis régalé à pleins poumons et que cette ville je l’ai trouvée belle. Par la suite seulement j’ai pensé à la continuité cachée au coeur de cette rupture ou de cet exil volontaire.

Il y a la force du destin et il y a forcer son destin, mais au bout du compte les deux finissent par se rejoindre quelque part en un lieu abstrait, dans une dimension un peu fantastique où les deux forces superposées l’une à l’autre dessinent un contour commun fait d’habitudes et de rencontres surprenantes, de souvenirs réinventés, d’”amitiés stellaires”, d’ éveils douloureux et de rêves enfuis. Une vie quotidienne devenue banale avec le temps mais avec une charge magnétique qui montre invariablement la direction de ces vieilles rues sales et surpeuplées, dessinant en négatif, à mesure que le temps passe, quelque chose comme “la meilleure des vies possibles”.

Et pourtant, curieusement, cette expérience inédite pour moi était contrebalancée par ce fait simple et indéniable:

Je connaissais Paris avant de fouler ses avenues et ses pavés irréguliers. Avant de connaître Paris, j’avais lu des livres qui parlaient de Paris sans m’en rendre vraiment compte et, par imprégnation, identification, ou assimilation, les noms des rues, des places, des monuments, les appellations mystérieuses des stations de métro, tout cela et plus encore me revenait d’un seul coup, présent et insoupçonné, les livres de Simenon et les épisodes de Maigret à la télévision dans les années 70, la fabuleuse et poétique série des années 60, Belphégor le fantôme du Louvre, les Compagnons de Baal, les poèmes de Verlaine, la Commune de Rimbaud, de l’ Aurélia de Nerval au Nadja d’ André Breton, Paris était le décor et le sujet d’oeuvres inoubliables de mon enfance et surtout de mon adolescence.

C’est à ce titre que j’ai alors silloner cette Ville dite Lumière, en autobus d’abord, au hasard des lignes et des terminus, Petit Poucet sur son impériale, à la recherche d’un chemin perdu et sans cesse retrouvé, posant mon regard dans celui des autres, réinventant à mon compte les images du passé, au volant de mon propre film ou plutôt entraîné par ce transport commun à tous les nouveaux arrivants. D’autres avaient vécu ici, personnages réels ou de fiction, et j’allais naïvement à leur rencontre, j’entrais à mon tour dans la ville écrite ou filmée et je ne sais pas si mes trajets mis bout à bout avaient la forme d’un livre, d’une gravure ancienne, ou d’un plan de cinéma, mais les séquences qui se dessinaient à ce moment étaient autant celles de ma propre histoire que celles, fantasmées, des écrivains, des poètes, des cinéastes et de leur imagination. Paris, ville rêvée autant que vécue, depuis tant de générations, de l’escholier François Villon à l’aristocrate Marcel Proust, tous acharnés à écrire jusqu’à rendre indiscernable la part d’Histoire et de Songe, tous engagés dans le corps du texte de la ville, mot à mot, rue à rue, à la ligne du paragraphe ou du métropolitain. Bien sûr d’autres livres sont venus depuis enrichir et complexifier ce réseau imaginaire de lectures et de rencontres et d’amitié.

Je crois que l’on peut dire que l’on rentre en amitié avec les villes et leurs habitants, inconnus d’un jour ou frères pour longtemps, passantes évanouies comme les chantent Brassens, ou belles d’un soir entre aperçues entre l’ombre et la lumière d’une rame aérienne dans le ciel nocturne. J’ai souvent eu l’impression que ma vie devenait, sinon plus grande en tous les cas plus ouverte, de participer à un espace et un temps qui dépassaient ma simple existence mettant ainsi à jour une autre généalogie, une autre histoire, celle de la culture et de l’amitié.

Parmi les nouveaux livres qui créaient et confirmaient cet attachement à Paris, il y avait “Enchantements sur Paris” de Jacques Yonnet, republié sous le titre “Rue des Maléfices” malheureusement sans les magnifiques photographies argentiques qui illustraient la première édition, “Le Livre des Passages, Paris capitale du 19ème siècle”, le grand livre inachevé de Walter Benjamin, et “Le Paysan de Paris” du jeune Aragon, à l’aube de la révolution surréaliste tant liée à la légende de cette ville. Une place à part pour “Les Naufragés” du regretté Patrick Declerck qui renoua avec la noirceur et la grandeur de Villon pour décrire de l’intérieur la misère et l’abandon des gens de la rue à notre époque.

“Je n’avais pas compris que le mythe est le chemin de la conscience, son tapis roulant.”

“La lumière moderne de l’insolite, voilà désormais ce qui va nous retenir.”

Louis Aragon, Le Paysan de Paris, Gallimard, 1926.

Sans oublier bien sûr toutes ces chansons populaires, des “Grands Boulevards” de Francis Lemarque (Nathan Korb de son vrai nom) au “Poinçonneur des Lilas” de Gainsbourg (Lucien Ginsburg), étrange comme les plus belles évocations de ce Paris aimé ont été écrites par des gens venus d’ailleurs, les Grands Cosmopolites, les exilés du monde entier, toujours au coin d’une rue, d’un passage, ou d’une ritournelle entendue en passant, l’air de rien justement, mais qui font et feront toujours le sel de cette ville.

Parmi les chansons sur Paris, les poèmes de Verlaine et Rimbaud mis en musique par Leo Ferré sont les plus évocatrices pour moi, écoutées des centaines de fois dans “ma province”, leurs mélodies à jamais gravées dans mon souvenir. “On est pas sérieux quand on a 17 ans” d’ Arthur Rimbaud, par exemple:

Les tilleuls sentent bon dans les bons soirs de juin !

L’air est parfois si doux, qu’on ferme la paupière ;

Le vent chargé de bruits – la ville n’est pas loin –

A des parfums de vigne et des parfums de bière…

Parfois je regrette un peu ce temps où, sortant d’une bouche de métro, je me trouvai totalement désorienté, parfois obligé de demander la direction de la Seine ou de la Bastille pour tenter de me repérer, cette sensation au fond agréable, de ne pas savoir où l’on est exactement tout en sachant que l’information est à portée de main, de parole ou de regard plutôt. Marcher sans but précis pour connaître l’étendue de cette ville et faire lien entre les différents quartiers, sortir de l’efficacité des déplacements souterrains, ne plus être déplacé justement, mais parcourir, marcher, marcher toujours pour incorporer les lieux, les noms, l’histoire, se rentrer la ville dans la peau comme un amour dont on se souviendra longtemps, pour l’oublier enfin, et le redécouvrir des années plus tard. La beauté secrète d’une ville, sa magie, c’est d’abord à pied qu’on la connait, aléatoire, subjective, sur-déterminée et non géo-localisable, une ville faite de ces périples et de ces errances, rencontres et situations, un espace mental dans un temps qu’on s’ imagine.

Parmi les choses que je faisais, je me souviens que je passais régulièrement Gare de Lyon, dans le grand hall des départs avec sa longue fresque peinte des paysages et des villes de Paris à Menton, quand je faisais mes “tournées” des librairies et des kiosques à journaux. Je garde toujours de cette époque l’habitude de parcourir les rues en m’arrêtant aux vitrines de livres anciens de préférence, les bouquinistes le long des quais de la Seine, les touristes ne me gênent pas, au contraire, j’aime beaucoup regarder tous ces visages venus du monde entier, entendre ces accents lointains résonner sous les grands platanes des avenues.

Parfois j’ai ma petite ruse pour déjouer la routine des trajets, je descends 2 ou 3 stations de metro avant celle où je dois me rendre et là, j’explore, je traîne, je rejoins quelque chose que je ne savais pas chercher, une ambiance, une lumière, une terrasse de café, une enseigne de magasin, une perspective inédite, un regard volé, un parfum nouveau, curieux mélange d’inconnu et de réminiscence. Il faut du temps pour se construire son propre rapport à la ville, pour élaborer une histoire avec les gens et les lieux, mais les deux moyens les plus forts que j’ai rencontrés sont le travail et l’amitié. Que ce soient la solitude, la violence, ou l’inquiétude que les hivers ne finissent jamais, rien n’est plus souverain que ces liens là. Le soir, après le travail, je marche encore un peu au-delà de la fatigue. On dit que le ciel de Paris est un des plus variés au monde, mon observatoire et ma respiration c’est m’accouder au Pont-au-Change au Châtelet et regarder, comme depuis un balcon, le fleuve couler vers son embouchure de Seine- Maritime, et sentir le vent du large chasser les grands nuages blancs.

Marcher dans une ville c’est marcher dans la mémoire de ceux qui l’ont habités avant nous, ceux qui ont sillonés ses rues, ses parcs, ses boulevards accablés d’ autos ou ses trottoirs de pluie, la mémoire de ceux qui ont travaillés et aimés là, dans ses murs de misère, d’ivresse ou de joie. Marcher dans une ville c’est aussi croiser le chemin d’une ou d’un inconnu, ou de mille, c’est à la fois découvrir et reconnaître ce qui fait qu’un corps, un geste, ou un visage nous émeuvent au-delà de toute raison et suivre de loin en loin ses déplacements et sa disparition. Combien de fois cette ville est-elle un miroir qui nous révèle à nous-mêmes ce que nous ignorons encore ou pressentons confusément, espace magique fait de coïncidences, d’indifférences, de dégoûts aussi. Arrivé à mon âge, ce que je désire faire encore à Paris se trouve dans le passé mais parfois je trouve le chemin de ce retour et quand j’ ai la chance d’y être accompagné par un ami, cela me ravit et donne un sens nouveau à mon sentiment du temps. Assis à la terrasse d’un café, je dévisage les jeunes gens d’aujourd’hui, j’imagine leurs parcours avec une certaine émotion, je me dis qu’ils sont bien graves et bien beaux, que la vie continue, et que désormais Paris est à eux.

A la fin de “Fable de Venise” Hugo Pratt clôt son récit allégorique et aventureux par une de ses plus belles phrases pour moi:

“Il y a à Venise, trois lieux magiques et secrets: l’un dans “la rue de l’ Amour des Amis”, le deuxième près du” Pont des Merveilles” et le troisième dans la “Calle dei Marrani”, près de San Geremia, dans le Vieux Ghetto. Quand les Vénitiens- parfois ce sont les Maltais- sont fatigués des autorités, ils vont dans ces lieux secrets et, ouvrant les portes au fond de ces cours, ils s’en vont pour toujours vers des pays merveilleux et vers d’autres histoires…”

Idée merveilleuse et magnifique! J’ai souvent pensé à quels seraient ces trois lieux magiques dans différentes villes, et dans Paris bien sûr! J’ai bien quelques idées au fil du temps mais rien de définitif, il n’appartient pas à une seule personne de décider quelque chose d’aussi sérieux. Quelque part entre l’ Ile de la Cité et le Jardin des Plantes, j’imagine. Jusqu’ à la Place d’ Italie, peut-être, en remontant vers la Butte-aux-Cailles et les Gobelins, où coule, secrète, la rivière souterraine chère à Yonnet et ses maléfices..

Derrière les murs de Paris il y a des jardins. Des jardins aux allées bordées de tilleuils qui fleurissent en juin pour embaumer la chaleur de l’été. Cette odeur des tilleuils, je la sens chaque année en juin, Place des Innocents, aux Halles, et je me dit parfois, pourquoi un parfum ne serait-il pas aussi un lieu pour changer d’ histoire, de rêve?

Les tilleuls en fleur

Souvent je me rendais, le matin, chez un médecin qui avait installé son cabinet rue d’ Assas, derrière les Jardins du Luxembourg, dans la maison même où Strindberg, son écrivain préféré, avait vécu au siècle dernier. Une telle admiration, une telle dévotion, rend compte à mes yeux de ce que Paris inspire à ceux de ses habitants qui prennent la peine de connaître son histoire, petite ou grande. Autre lieu, autre quartier, dans la rue Saint- Martin, proche de Quincampoix et de l’actuel Beaubourg, l’église Saint- Merri abrite sur sa facade rénovée, au centre même de son tympan, la figure sculptée d’une créature hybride, hermaphodrite, mi-ange mi-démon, datant selon les historiens de 1841. Cette étrangeté portée à la connaissance du public par les mystérieuses “Demeures Philosophales” de celui qui se faisait appeler Fulcanelli, fait partie des petites “enclaves du rêve” dispersées dans la capitale, hommage ou citation du mouvement occultiste si pregnant au 19ème siècle. Un diable ou une idole templière à l’endroit même où l’on s’attendrait à trouver le Christ ou un grand saint, voilà de quoi réjouir l’imagination et renouveler le sens du merveilleux du “piéton de Paris.

Le diable à l’église

Dernière découverte en date, mon amie Catherine Pinguet m’ a parlé d’un cimetière privé rue de Picpus! La géographie de Paris c’est aussi une histoire. Parfois il y a des lieux étranges, cachés, ou mal agencés au reste de la ville, parfois au sortir d’un endroit porteur d’un sens différent, voire divergent, on mesure l’impact de l’histoire officielle dans l’agencement des places, rues, cours, presque un sens symbolique qui saute aux yeux qui reviennent alors de loin: comme une évidence ce passage, ce détour, presque cet égarement par un autre lieu, en l’occurrence le Cimetière des Guillotinés des Barrières de la Nation de 1793, lieu autre s’il en est, la face obscure de la révolution française, sa terreur, … Des centaines de tombes de la noblesse et du clergé sont cachées au regard des passants, au fond d’une cour puis d’un jardin quasi-secret adossé à une institution religieuse toujours en activité. Dans la chapelle les murs de la nef sont couverts de la longue litanie des noms des 2000 guillotinés entassés dans la fosse commune.

En revenant vers la place de la Nation, un peu sous le choc, je vois clairement de mes yeux décillés la statue centrale, allégorie de la gloire collective, s’élance plein ouest vers la place de la République et tourne le dos aux Rois de France perchés sur les colonnes du Trône qui eux regardent vers l’est c’est-à-dire le château de Vincennes ancienne demeure et place forte royale avant que Philippe Auguste ne fasse construire le Palais du Louvre.. La nation regarde vers l’avenir et la royauté vers le passé. Un bel ordonnancement qui réfléchit un sens particulier de l’histoire, l’histoire c’est toujours celle des vainqueurs. Au fond d’une cour du 12ème arrondissement de Paris gît pêle-mêle tout un monde disparu, l’histoire a tranché dans le vif les fils de l’ordre ancien. Je dis cela sans nostalgie ni regret pour l’Ancien Régime et ses inégalités, ses cruautés et ses aveuglements coupables, mais peut-être aurions-nous pu faire autrement, suivre une autre voie moins radicale, émancipatrice malgré l’obscurantisme, et qui aurait peut-être épargné à ce pays plus d’un siècle d’ une guerre civile qui n’ a jamais dit son nom.

La République seule

Faire l’expérience de Paris, c’est aussi au moment du retour quand on revient après un voyage ou des vacances. Hier soir, enfin l’autre nuit, j’ai traversé la banlieue nord dans un bus qui relie l’aéroport Roissy Charles de Gaule à la Gare de l’Est, quand il n’y a plus de RER, avec les gens qui vont ou qui rentrent travailler, des africains et des maghrébins pour la plupart (les touristes qui rentrent de vacances eux prennent un taxi d’habitude) En une heure nous avons rejoints la Gare de l’ Est et puis après le Noctilien (sûrement un véhicule hybride entre le grand serpent cosmique et la nuit éternelle!) vers Châtelet et enfin Bagnolet et Montreuil après avoir passé le Périph’ une heure après. Mais cette seconde partie était très belle, Paris déserté de voitures, de touristes et autres badauds, à 2 ou 3 heures du matin, le quai Henri IV, la Bastille, puis la rue St Antoine et la Gare de Lyon jusqu’à Gambetta à travers les

avenues et les monuments éclairés avec tous ces travailleurs noctambules qui rentrent ou partent accomplir d’obscures tâches de ménage, de surveillances, et autres services lubrifiants de la grande mécanique urbaine. ..

Je me suis fait la réflexion idiote. C’est fou le nombre de gens qui ne dorment pas la nuit dans cette ville. A l’arrêt du bus un jeune marocain en petite veste légère dans la nuit froide raconte crânement à un grand africain emmitouflé qu’il a vécu jusqu’à l’ äge de 15 ans sur les plateaux du Haut- Atlas, à plus de 1800m d’altitude, et que ce froid là, celui de Paris, il ne rentre pas en lui, il ne le sent pas.. Revenir d’une île perdue dans la Méditerranée au large de la France et de l’Italie pour une autre île, dite de France celle-là, n’a absolument aucun rapport avec tout cela, si ce n’est un étrange sentiment d’irréalité dans un sens comme dans un autre. En évoquant cette fin de nuit dans Paris désert ou plutôt plein de ceux qu’on ne veut pas voir le jour, un ami m’a dit avoir pensé à ce petit film de Marguerite Duras, Les Mains Négatives.

Encore une coïncidence, chère Claudia, puisque dans tes questions il y avait aimes-tu Duras? Mais ceci est une autre histoire..

Depuis des années le quartier où je travaille est en chantier et dans “ce bruit et cette fureur” une vieille dame ravalée songe aux jours de son passé glorieux en regardant couler la Seine à ses pieds.

La fermeture de la Samaritaine / La chiusura della Samaritana

Lovely rita -> play it again, Sam ! -> Amar m’a tué

Mais elle garde le sens de l’humour!

Paris | marzo 15, 2018

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